- Mattia Faramia
Core Training o non Core Training - Terza parte
Scritto vincitore del concorso riservato ad esperti dell'esercizio fisico per "La settimana Europea per lo sport 2019"
Estratto della tesi di laurea “Di Core in Peggio".... “Mens Sana in Core Sano” di Mattia Faramia
KINESIOFOBIA E RUOLO DI “UN BUON TRAINER”
Voglio scostarmi momentaneamente dall'aspetto prettamente tecnico della core stability per sollevare una questione che reputo fondamentale, la quale tuttavia viene spesso trascurata da molti colleghi anche più esperti ovvero la kinesiofobia; essa è definita come l'eccessiva ed irrazionale paura nello svolgere attività fisica pensando di poter causare ulteriore danno o di ricadere in un precedente infortunio, questo concetto non si limita solo al mal di schiena ma a tutto l'apparato muscolo scheletrico ed alle relative attività fisiche e sportive (Chris J. Main et al. 2002) infatti sono innumerevoli le persone che in seguito a problematiche muscolo scheletriche anche lievi preferiscono, pensando di fare cosa buona e giusta, rimanere fermi dal punto di vista motorio o sportivo limitandosi a svolgere le indispensabili attività lavorative, tuttavia è durante esse che il rischio d'infortunarsi o peggiorare una sintomatologia latente aumenta non potendo così usufruire di quel transfer che uno specifico esercizio fisico può indurre, basti pensare alla correlazione tra il sollevamento di un oggetto da terra ed un deadlift (stacco da terra) (Busquet, 2009). A tal proposito è interessante la revisione clinica di Chris J. Main et al. (2002), che cita l'esempio della lombalgia perché è la prima causa di disabilità al mondo, seppur i principi enunciati siano applicabili anche ad altre sintomatologie muscolo scheletriche. A tal proposito si asserisce infatti che quando queste problematiche fisiche, tendenzialmente autolimitanti, diventano croniche le conseguenze sono gravi ed includono anche conseguenze non prettamente fisiche come l'angoscia del diretto interessato e delle loro famiglie, i risvolti per i datori di lavoro in termini di assenza e per l'intero sistema sanitario; a riguardo è stato dimostrato che i fattori psico-sociali svolgono un ruolo pesante esacerbando la percezione del dolore e lo sviluppo della disabilità cronica, non a caso l'autorevole “The Lancet” descrive l'inattività fisica come una pandemia e questa nuova visione ha così portato a un modello "biopsicosociale" nel trattare le sintomatologie come il mal di schiena (Chris J. Main et al., 2002). Vi sono diverse ragioni per cui i pazienti possono consultare il proprio medico, non solo per ricercare sollievo sintomatico ma semplicemente per rassicurazione, esprimere angoscia e frustrazione, specialmente coloro più vulnerabili come gli anziani (certe volte aver qualcuno che ti ascolta può rivelarsi il farmaco migliore). Da ciò emerge il ruolo non solo clinico del terapista (medico, chinesiologo o geromotricista che sia) ma anche la necessità di saper ascoltare attivamente le diverse tipologie di persone che si possono presentare d'innanzi a noi, come sosteneva Ippocrate ben 2000 anni orsono: “ il buon medico è colui che concilia buon metodo e giusta morale”, questa affermazione è assolutamente trasferibile ad altre figure sanitarie e non, come il Laureato in Scienze Motorie, che dovrà conoscere la diagnosi iniziale del medico, che se escluderà eventuali patologie specifiche potrà indirizzare l'individuo verso un programma di esercizio fisico adattato: per esempio in caso di un comune aspecific and cronic low back pain si potrà intervenire con una serie di esercizi di core stability, come “i big 3” (McGill e Karpowicz, 2009) attraverso cui si potrà intervenire anche sotto il profilo bio-psico-sociale andando ad abbattere quei falsi miti che aleggiano anche “nelle coorti” dei medici più rinomati come:
“La flessione del busto è sempre sconsigliata”, anche l'estensione lo era fino alla scoperta del metodo McKenzie.
“L'esercizio fisico, il sollevamento pesi principalmente, va evitato se sintomatici”, al contrario, rifacendoci alla legge di Lamark, i muscoli vanno sollecitati ed allenati.
“Se provo dolore significa che ho un danno”, Hodgson e Richardson (1999) hanno invece dimostrato che potrebbe essere dovuto ad un'alterata attivazione neuronale.
I falsi miti sono molti, di solito vengono giustificati con frasi del tipo:“abbiamo sempre fatto cosi”, “l'ha detto quel medico” (per la maggior parte delle persone è sufficiente indossare un camicie per assumere “sembianze quasi divine”); come schematizzato in Figura 25 la differenza la fa il professionista, il quale previa diagnosi medica iniziale, dovrà innanzitutto essere franco ed informare la persona sulla sua reale situazione poi rassicurarlo sul fatto che dolore non sempre significa danno ma è un evento possibile nel corso della vita, infatti una persona va sempre ascoltata attivamente aiutandola a non assumere un atteggiamento catastrofico da cui possono scaturire spiacevoli conseguenze ma ad affrontare la situazione incoraggiandola ad esercitarsi nella giusta dose e tipologia piuttosto che rimanere fermi a letto.

Figura 25: Musculoskeletal pain (tratto da Chris J Main et all., 2002)
Una situazione gravissima è quando lo stesso terapista induce kinesiofobia vale a dire quando consiglia di non muoversi o al massimo di fare solo “un pò” di nuoto o ancor più gravemente quando, vuoi per convinzione personale o per chiudere la visita rapidamente, il medico effettuando la diagnosi iniziale invita il paziente ad eseguire una bio-immagine come unico rimedio: una review sistematica (Brinjikji et all., 2015) ha dimostrato che anche g